Il Carnevale da sempre racchiude in sè atteggiamenti e gesti “anti-qualcosa”, era la giornata in cui era concesso al popolo di capovolgere la normalità delle cose, anche quella di perpetuare antiche pratiche magico-religiose precristiane.
Infatti alcune maschere isolane non corrispondono affatto all’idea gioiosa e irriverente che si ha del carnevale, presentandosi invece come cortei composti, tetri e silenziosi, proprio perchè nascono in altri contesti ancestrali di riti agrari ,che hanno trovato modo di esprimersi nella settimana che precede l’inizio della Quaresima.
In questo contesto il suono sembra assumere in sè un valore simbolico determinante: Nel caso dei Mamuthones il significato è di contrapposizione tra il “selvatico” e la civiltà, simboleggiano l’antitesi natura/cultura evidente soprattutto negli abiti di pelliccia, maschere con corna, teste di animali ecc., diversi a seconda del luogo della Sardegna (boes a Ottana, Ursu di Sassari); ma quello che li accomuna tutti è il tintinnio di campanelle e campanacci che in vario numero, forma e dimensione pendono dal corpo dell’uomo animale e che connotano, nel loro suono, il dramma.
Il significato ultimo è appunto il tentativo dell’uomo di dominare la natura, di renderla meno imprevedibile e sfruttarla; l’esito della vicenda che vede l’uomo trionfante è di conforto per l’intera comunità; la stessa cosa accade per il suono, perchè il tintinnio disordinato, rumoroso e agreste che caratterizza l’incedere delle maschere, diventa ritmo, ordine, si muovono sincronicamente e lo scatto aziona centinaia di campane.
Negli altri carnevali il rumore rimane rumore, a Mamoiada diventa musica, cioè, nella definizione di uno dei più grandi compositori del Novecento, Edgard Varese “suono organizzato”.
Un film dai toni comici ma allo stesso tempo commovente, l’uomo che comprò la luna, uscito nelle sale il 4 Aprile con la regia di Paolo zucca, sta davvero appassionando tutte le fasce d’età. Un ritmo narrativo leggero ma con un giusto mix di emozioni che riesce davvero a renderne piacevole la visione. Ma quello che davvero ho apprezzato particolarmente è il sound design, o meglio il reparto composing e la scelta del mix delle soundtrack selezionate.
Quello dell’audio production è un compito davvero di responsabilità, riuscire a comunicare con il suono tutte le complessità emozionali di un film, e allo stesso tempo rendere credibile l’immagine senza banalizzarla è sicuramente qualcosa di complesso e affascinante. In questo caso è stato davvero efficace:
Il film comincia con una musichetta leggera che farà da leit motiv al nostro protagonista per quasi tutto il film: un motivetto simpatico e caricaturale che non rinuncia alle sonorità tipiche, mescolando però una nota di simpatia e ingenuità giovanili a quelle più adulte di compassione e tenerezza. E’ il motivetto associato, infatti, al momento della “formazione culturale”, in cui si apprezza tutta la bellezza di un “nonno” (Benito Urgu) che insegna le usanze sarde ad un giovane Kevin Pirelli (Gavino Zoccheddu, sardo ma emigrato a Milano).
Ma ad un certo punto, dopo aver scavato più a fondo nel personaggio di Bodore (Urgu) l’ambience sonoro cambia, è il momento del “rito di passaggio”. Kevin/Gavino è pronto per l’esame: si prepara con una sonorità introspettiva, un cluster esteso, quasi un bordone profondamente tradizionale che comunica tutta l’importanza e la severità del momento.
Poi ritorna il motivetto iniziale che spezza la tensione, con un momento davvero divertente dell’arrivo a Cagliari: Gavino sbarca con un abito tradizionale, decisamente poco consono al modo in cui si presenta nel 2019 la Sardegna! Questo forse un po’ per enfatizzare il modo in cui viene vista questa regione dall’esterno, e un po’ per rendere più comica la scena. Gavino quindi chiamerà, in preda al panico, i suoi superiori comunicando che non c’era nulla di quello che si aspettava (canne al vento, vecchiette col fazzoletto nero ecc….) come se gli fosse stata presentata un’immagine della Sardegna decisamente distorta, forse troppo romantica. Però siamo anche in città giusto? giusto. E qui arriva il momento migliore del film:
Il protagonista riguarda bene la cartina, girandola, e nel frattempo con una veduta aerea e un movimento rotatorio della telecamera Gavino si incammina…. verso il centro della Sardegna… la regia sembra davvero suggerire una specie di entrata in un’altra dimensione, come se stessimo per vedere un’altra faccia della Sardegna, quella più interna, quella più vera, quella più sincera, un vero e proprio mondo parallelo. Gavino arriva in un paesino abbandonato dove con gli occhi persi nel vuoto, come avesse avuto un’illuminazione, racconta (con un’impostazione vocale da documentario anni ’70) quello che vede e la bellezza che gli si para davanti nella sua semplicità. La musica non fa altro che accompagnare tutto questo (già forte a livello visivo) comunicando, con sonorità decisamente più tipiche, quanto andare in Sardegna possa davvero rivelarsi un’esperienza mistica di riappropriazione delle proprie tradizioni, delle proprie origini, non solo per un sardo ma per l’umanità in genere: entrare in contatto con una cultura ancora fortemente legata alla terra, infatti, è qualcosa che tocca tutti, fa perdere il senso dell’orientamento e del tempo, fa apprezzare le cose da un altro punto di vista, e cambia necessariamente le priorità.
Con l’avanzare del film la musica si farà sempre più tipica e sempre più potente: un’altra parte decisamente efficace dal punto di vista sonoro è quella immediatamente successiva, dove in un “bar di paese” Gavino verrà sfidato a colpi di “sardità” e dove inevitabilmente una musica stile western sardo rafforzerà il gioco di sguardi che precedono il duello, in questo caso non con le pistole ma a biliardino! seguirà un incontro a sa murra, già di per sè un gioco tipicamente ritmico musicale, appunto, a causa dello scandire dei numeri. E infine… proprio loro, le quartine dei tenores! espressione sociale del mondo agropastorale nella loro forma più tipica di improvvisazione.
Subito dopo, sempre a tenores, inizia un canto che parte da uno degli anziani del bar, quasi sospeso nel vuoto e nel tempo, che comunica tutto il dolore del popolo sardo, un popolo purtroppo sempre sfruttato dall’invasore che ogni volta ha fatto fatica a riprendersi e ad andare avanti; questo canto accompagna il momento di calma, dopo l’accettazione di Gavino e comunica il motivo della diffidenza dei sardi verso lo straniero.
Quando però gavino si tradirà da solo e scapperà dal bar comincerà, in maniera più che geniale, un musica simil tribale, come se l’insulto di Gavino facesse ripiombare i sardi del bar in uno stato primordiale in cui l’unico loro interesse sarà riempirlo di colpi! geniale l’accostamento della musica da tribù indigena al momento dell’inseguimento.
Da questo momento fino alla fine ci sarà un ritorno dei leit motiv associati ai principali personaggi, infatti ritornerà il leit motiv comico caricaturale per Gavino, l’ambience introspettivo per la visione di Bodore e il motivo tribale per il ritorno dei sardi del bar. Come se ogni personaggio avesse una sua sonorità ben precisa.
Un ultimo accenno ancora alla musica solenne del viaggio sulla luna a incontrare gli eroi sardi, dove vengono mescolate sonorità tradizionali a quelle molto più sci-fi in un mix davvero denso di maestosità, orgoglio e consapevolezza.
e poi loro! non potevano mancare nel finale le launeddas che, come in un’antichissima leggenda sarda, salvano il popolo dagli invasori restituendo la pace e la serenità, regalandoci sempre sonorità festose e ataviche in un film che mescola comicità, riflessione e identità in una cornice unica.
Li sentite questi suoni? proprio questa è la notte dedicata proprio a loro, gli strumenti della settimana Santa!
I rumori tipici di questi giorni sono prodotti con strumenti a percussione o a raschiamento, generalmente qualificati come “strepiti”. La denudatio altaris prevedeva innanzi tutto il silenzio delle campane (alcune venivano addirittura legate con delle funi, per ribadire il concetto) affidando a strumenti di legno il compito di convocare i fedeli alle funzioni religiose.
e quindi via ai suoni di matraccas e taulittas (anche definite troccole, battole, tabelle) l’uso di tali congegni fonici simboleggiava il ritorno a uno stato primitivo e originario della condizione umana: si utilizza un suono umile e sordo al posto di quello squillante e limpido delle campane che rievoca una pratica risalente all’epoca in cui i cristiani si nascondevano ancora nelle catacombe.
il silenzio delle campane simboleggia la fuga degli apostoli incapaci di testimoniare il vangelo, quando però il Cristo ritorna in vita e sconfigge la morte, istantaneamente le campane incominciano a suonare e il “legname” sostitutivo torna nell’armadio per restarci fino all’anno successivo.
Il paesaggio sonoro è costituito da un’insieme di sonorità che nella percezione e nella memoria delle persone rimandano a un determinato contesto spazio-temporale
La festa, da una prospettiva socio-antropologica, non era sinonimo di divertimento ma di semplice opposizione al concetto di quotidianità. Infatti si cambiava anche solo il modo di mangiare e anche il modo di vestire, e soprattutto c’era una maggiore densità di suoni e musica.
Oggi noi possiamo sentire la musica in qualsiasi contesto e luogo, ma un tempo la musica era un bene piuttosto raro e razionato, si poteva vivere solo nell’istante dell’esecuzione; il suono festivo, poi, non si riduceva alla sola musica ma si estendeva a tutto il “paesaggio sonoro” nel complesso, ossia tutti gli “eventi acustici” e sensazioni uditive che contraddistinguono un determinato luogo/occasione.
Alla costruzione del paesaggio sonoro della festa comunitaria partecipavano in primo luogo le campane di chiesa che scandivano la vita delle comunità e che nel giorno della festa eseguivano uno specifico repertorio di arrepiccus, ossia rintocchi rapidi che caratterizzavano il momento.
si aggiungevano le campanelle, i bubboli, i campanacci dei buoi, le esplosioni con i petardi che avevano l’intento di accrescere l’euforia della comunità.
ovviamente i suonatori di launeddas, di organetto, i tamburi, contrapposti al vociare e alle risate delle persone o al lento lamento delle processioni,
gli zoccoli dei cavalli, dei buoi, il saltellare dei bambini, e l’abbaiare dei cani…
la tazzine dei caffè nei bar in piazza, il frusciare dei giornali, le biciclette e i loro campanelli, il vento, le foglie, gli alberi, il canto degli uccelli…
“il mondo è un’immensa composizione musicale” completamente casuale, completamente unica, che si esaurisce e scompare nell’istante in cui si consuma.
“Sembra una cartina geografica solita, ma reca notizie sui sistemi musicali”, così scrisse A. Galli quando la pubblicò nel 1919.
La musicologia comparata si occupa delle affinità di suono, di linea e di stile tra le diverse culture, mettendole poi a confronto allo stesso modo di come si confrontano le lingue o le conformazioni fisiche del paesaggio, per scoprire ceppi comuni o influenze dovute a dominazioni e passaggi.
Mentre per lo studio della dialettologia la Sardegna va divisa in 3 zone principali (Cagliari, Logudoro, Sassari) per il musicologo si divide invece solo in due grandi regioni: Capo di sotto e Capo di sopra, intendendo con musica caposoprese quelle linee di stile proprie anche di parte della Barbagia, della Planargia, dell’Ogliastra e del Campidano di Oristano.
Giulio Fara presentava la musica sarda come “incontaminata espressione di antiche civiltà”
in effetti anche nella musica, come nell’evoluzione delle specie, si riscontrano i più primordiali bisogni ed espressioni sentimentali delle persone; il canto nasceva dalla necessità di esternare particolari stati d’animo oppure di attrarre, individui dell’altro sesso in modo da determinare l’evoluzione della specie. Se ci si pensa, in natura il canto degli uccelli si basa sugli stessi presupposti.
I sentimenti di cui sopra, che informano tutte queste melodie sono gli stessi che dovettero ispirare i primi rudimenti del canto dell’uomo primitivo: il bisogno di una madre di cullare un bambino, il pianto per i morti, il bisogno del canto nell’ardore dell’amore o della guerra, nel divertimento ed ebbrezze di una danza giocosa, o la contentezza domestica.
Per questo motivo la musica sarda risulta tanto varia, in una terra ancora così radicata nelle sue tradizioni e ancora così incontaminata, la musica risulta con caratteristiche assolutamente uniche, una misura non è uguale all’altra, i ritmi instabili e i procedimenti melodici sono tanto indecisi da non riuscire a dare l’idea chiara della tonalità di un pezzo.
Nella provincia di Cagliari e in tutta la regione Meridionale la musica ha un carattere essenzialmente triste, semplice, selvaggio, proprio dell’uomo primitivo; al contrario nel Logudoro e nella provincia di Sassari la musica conserva i caratteri e le tracce di antichi popoli che vi hanno dominato, presentando melodie assolutamente orientali, facilmente riconoscibili per la ricchezza delle fioriture.
Secondo Murray Schafer la musica è la più limpida espressione della stabilità di un popolo, nelle aree in cui una comunità prospera essa è in grado di tenere sotto stretto controllo la musica e risulta fortemente strutturata. Qualsiasi etnomusicologo può confermarlo, esistono pochi dubbi sul fatto che la musica sia uno strumento rivelatore della propria epoca, un mezzo capace di fissare avvenimenti sociali e politici, ricco di sintomi e indizi per chi sappia leggerne i messaggi.
Le melodie sarde, tutte queste canzoni bizzarre e strane, dai ritmi saltellanti, come di danze selvagge, oppure tristi e monotone come nenie o cantilene, ma qual è la loro origine?
Il musicologo avvalendosi di nuovi e precisi strumenti di misurazione acustica e psicoacustica, ma soprattutto di registrazioni fonografiche, confronta musiche di tutto il mondo, per valutare il loro stadio evolutivo, individuarne substrati e adstrati e stabilirne la cronologia.
Uno degli etnomusicologi più importanti in Sardegna, Giulio Fara pubblicò la sua “composizione chimica” delle diverse tradizioni musicali sarde già nel 1922
Molti sono gli oggetti che vengono utilizzati in ogni parte del mondo per produrre suoni.
L’etnomusicologia si occupa di questi fenomeni studiando soprattutto le motivazioni che spingevano le persone a percuoterli, di gran lunga più importanti delle caratteristiche fisiche.
Le loro caratteristiche principali erano la disponibilità immediata e il valore simbolico.
Ad esempio molto interessante è la funzione magica attribuita alla percussione di pentole e tegami e la credenza che potessero comunicare qualcosa con l’aldilà, oppure si percuotevano dei sassi l’uno contro l’altro (soprattutto a Gavoi c’era una forte tradizione) ma anche bacchette, bastoni, martelli; erano considerati strumenti strepitio associati a rituali, riti derisori o di protesta.
la bottiglia percossa da una chiave oppure un piatto e una chiave, così come tutti gli strumenti lignei in chiesa (banchi sgabelli), oppure ancora gli scarponi e gli zoccoli con suola di legno. Creare invece delle canocchie con dentro dei semi o dei sassolini aveva un significato magico e protettivo.
Si può fare qualche confronto con altre parti d’Italia: in Calabria si usavano 3 cucchiai (idiofoni a strappo) 2 messi l’uno contro l’altro con a contatto la parte convessa e uno in mezzo per provocare il distacco e la percussione dei primi due, oppure ancora battere una contro l’altra le armi (danze armate).
Questi particolari tipi di strumenti musicali sono chiamati IDIOFONI, cioè tutti quegli oggetti che suonano senza specifici interventi umani che ne modifichino la struttura, infatti sono capaci di per se di produrre vibrazioni sonore senza il ricorso ad accorgimenti come la messa in tensione di membrane o corde.
Un esempio molto significativo in Sardegna sono le Castagnette (tabellas): erano tavolette impugnate tra le dita di una mano e fatte battere reciprocamente da movimenti del polso, in Sardegna erano in pietra e avevano all’interno una cavità per accentuare il suono, in altre regioni potevano avere altre forme e altri materiali.
Le toniche: La tonica in musica è la nota principale di una tonalità, quella a cui ruota attorno un intero brano, quella che si ripete più spesso e fa da sfondo continuo a una composizione; allo stesso modo, nell’ambiente il sottofondo continuo e perpetuo di un ambiente è chiamata tonica. Può essere il rumore dell’acqua in prossimità di un fiume, il rombo dei motori all’interno di una città, il suono di un condizionatore all’interno di un ufficio. Funziona esattamente come funziona un bordone in certi strumenti musicali, quelle note lunghe, fisse tenute per l’intera durata di un brano o di una frase musicale. Pensiamo a quel suono perpetuo, penetrante e continuo delle Launeddas, scaturito appunto dalla canna di bordone.
I Segnali: sono i suoni-messaggio, quelli che ascoltiamo più facilmente perchè ci avvertono o segnalano qualcosa: può essere il suono di un cellulare, di un ambulanza, di un clacson di un passaggio a livello.
Le impronte: quelli, secondo me più importanti, più belli; i suoni propri di un territorio, quelli che esistono solo perchè strettamente legati a un paesaggio in particolare: il suono del Big Ben a Londra, le cascate del Niagara, il brusio di Porta Portese, il Muezzin a Istambul, il bramito del cervo sardo…
Una passeggiata d’ascolto e un itinerario acustico non sono la stessa cosa o, perlomeno, può essere utile osservare una certa distinzione tra le due cose.
una passeggiata d’ascolto è più semplice e meno strutturata, ci si concentra sull’ascolto senza particolare attenzione alla sorgente di provenienza; la si può fare ovunque, l’orecchio rimane all’erta e si avrà contemporaneamente una certa qual solitudine che può rendere possibile la riflessione.
Un itinerario acustico è invece un’esplorazione del paesaggio sonoro di una data area, servendosi di una guida o di una mappa sulla quale siano indicati il clima sonoro e quei suoni insoliti che sarà possibile ascoltare durante il tragitto e, qualora la si faccia in gruppo, è meglio che i partecipanti siano distanziati tra loro, in modo di non essere a portata d’orecchio dei passi della persona che li precede. itinerario acustico può anche comprendere degli esercizi di pulizia dell’orecchio. paragonare le altezze e i timbri di diversi suoni e discuterne.